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PER GIULIA, PER TUTTE: AFFINCHÉ IL 25 NOVEMBRE NON SIA SOLO UNA DATA, MA CAMBI COMPORTAMENTI E POLITICHE VERSO LE DONNE

Il premeditato femminicidio di Giulia Cecchettin e le ultime, atroci settimane trascorse con angoscia dalle due famiglie e da tutta Italia hanno forse segnato un non plus ultra nella maniera di affrontare la questione femminile da parte della politica.
Si leggono buoni propositi bipartisan, relativi all’educazione sentimentale degli adolescenti nelle scuole: ma occorre considerare che -seppur apprezzabili, per quanto in ritardo- essi non esaurirebbero la missione in capo a chi governa e amministra.

Il messaggio più forte, come spesso succede, arriva dalla società civile: le decine di manifestazioni affollate e rumorose lasciano sperare che questa volta si faccia sul serio. E proprio il lucido attivismo di Elena, la sorella di Giulia, potrebbe diventare il simbolo stesso di una svolta culturale: perché il suo messaggio fortissimo arriva da una giovane che sta dimostrando il coraggio delle proprie idee, tanto più credibile in quanto vittima laterale, assieme alla sua famiglia.

Le cronache segnalano come i femminicidi in Italia dall’inizio dell’anno abbiano superato “quota cento”, e non di rado la folle gelosia si abbatte sopra ragazze già deboli nella bilancia della coppia: non occorre volgere lo sguardo all’oscurantismo iraniano per trovare anche da queste parti storie che pensavamo di aver lasciato alle spalle.
Non poche sono state le donne che, messe di fronte al bivio tra lavoro e maternità, hanno rinunciato forzatamente all’impiego, con gravi ripercussioni nelle legittime aspirazioni di crescita professionale: una donna che non è libera e indipendente è una donna ricattabile, più sola, potenzialmente sotto minaccia.

Certo le politiche pubbliche non stanno aiutando: la sostenibilità economica di una maternità non è un tema secondario. È notorio come, a parità di mansioni, in tutta Italia le donne lavoratrici percepiscono stipendi inferiori ai colleghi maschi. È altrettanto evidente che, nonostante la retorica del cambiamento, nemmeno ai livelli apicali il numero delle donne dirigenti d’impresa lontanamente si avvicina a quello maschile: in Veneto, ad esempio, sono sedici su cento.

Soprattutto, la carenza di asili nido pubblici (27 posti ogni 100 bambini in Veneto, 26 nel Veneziano a fronte di una media europea attestata a 33) offre poche alternative alle coppie che decidono di procreare: per questo motivo, ho sollevato una mozione in seno al Consiglio regionale, la cui approvazione impegnerebbe la Giunta a rivedere la propria programmazione e aumentare le risorse a bilancio da destinare a questo aspetto decisivo.

Ma anche coloro le quali, per inalienabile scelta personale, non desiderano portare avanti una gravidanza, in Veneto trovano più difficoltà che non altrove: l’obiezione di coscienza, infatti, da diritto sancito per legge è diventato espediente per rendere impraticabile l’aborto in tutte le strutture ospedaliere, dove non di rado alcune associazioni “pro vita” agiscono sulla psiche delle giovani donne intenzionate ad abortire, riducendo l’intera questione a mero riflesso economico.

Tuttavia lo scorso 30 maggio, la V commissione Sanità del Consiglio regionale ha introdotto, fra i criteri di valutazione dei direttori generali nelle singole ULSS venete, anche l’adeguamento alla media nazionale del numero di strutture dove l’interruzione volontaria di gravidanza può essere materialmente eseguita.

Ero stata la prima, oltre un anno fa, a suggerire che la tutela del diritto della donna ad abortire rientrasse tra i compiti di ogni direttore: non può essere considerata efficiente una gestione dove i reparti di Ostetricia e Ginecologia sono in mano al personale obiettore.
Eppure ci è voluto un anno affinché la maggioranza di centrodestra prendesse coscienza del problema e decidesse di cambiare rotta, dapprima trincerandosi dietro presunte «motivazioni tecniche» e poi riconoscendo che l’introduzione di questo parametro si poteva fare.

Si doveva fare, nella regione che cinquanta anni fa processava Gigliola Pierobon, giovane padovana accusata di essere ricorsa all’aborto clandestino, quando della pratica si poteva anche morire, prima dell’approvazione della legge 194/78 (mai peraltro applicata interamente): i fatti di questi giorni sono lì a dimostrare che molto dev’essere ancora fatto per abbattere in senso femminista tutti questi gender gap, e che l’evoluzione deve avvenire -come sta finalmente accadendo ora- a partire dalla società.

erika baldin: